L’uscita del Cd Rava On The Road, registrato dal vivo il 26 aprile 2013 durante la serata inaugurale del Torino Jazz Festival è l’occasione per porre qualche domanda a Enrico Rava, il jazzista italiano più noto al mondo. Sono nato per caso a Trieste, ma in realtà sono torinese, spiega Rava nel libretto che accompagna il lavoro.  Leggi tutta l’intervista […]

Uno dei meriti della direzione artistica di Stefano Zenni è consistito nel vedere Rava come un patrimonio della Città, mettendogli a disposizione la vetrina di Piazza Castello e l’Orchestra del Teatro Regio diretta da Paolo Silvestri, per realizzare il suo originale progetto sulla Beat Generation. Un viaggio che attraversa il Novecento e, come una colonna sonora, celebra l’immaginario dell’America anni Cinquanta: irrequieta come Kerouac, selvaggia come Brando, evocativa come le musiche di Bernstein.

Partiamo dal concerto. Nonostante condizioni meteo non eccelse, il pubblico ha presidiato la Piazza senza perdere una nota. Quali sono state le sensazioni scendendo dal palco?

Bisogna sempre dar retta ai detti popolari: “Aprile, di Pioggia un Barile”. Dovrebbe far riflettere sull’opportunità di fare concerti all’aperto in quel mese. Detto ciò devo confessare che, quando a venti minuti dalla fine del concerto ha cominciato a venire giù con una certa consistenza, ho aperto gli occhi (li tengo sempre chiusi quando suono) e ho visto una marea di ombrelli che riparavano migliaia di persone che restavano lì, eroicamente, ho provato una fortissima emozione, ho pensato che Torino non mi tradisce mai e ringraziato la pioggia che mi dava la possibilità di vivere un momento così intenso.

Hai affermato: sono contemporaneo di tutto, Burroughs lo incontravo spesso quando vivevo a New York, con Ferlinghetti ho fatto un concerto. Aggiungiamoci che hai paragonato il fascino del Miles Davis anni Cinquanta a quello del  Marlon Brando di Fronte del porto, la cui colonna sonora venne firmata da Bernstein. Ne emerge che Rava On The Road omaggia la Beat Generation ma, nel contempo, traccia un percorso intensamente autobiografico…

E’ vero, sono contemporaneo di tutto. Ho attraversato  gran parte del secolo scorso da persona curiosa e attenta. Dai bombardamenti alla Liberazione, dalla ricostruzione al boom economico, dalla guerra in Corea alla crisi di Suez, da Elvis ai Beatles e agli Stones, da Armstrong a Parker, dalla crisi di Cuba al ritorno di Perón e potrei continuare questa lista fino ad esaurimento ( mio e tuo). E’ difficile trovarsi nel mezzo di un golpe militare in Argentina  e non raccontarlo in qualche modo. In questo senso la mia musica è sicuramente uno specchio della mia vita. A volte in modo diretto, altre in modo inconscio.

La tua vita è punteggiata di metropoli importanti: Roma, Buenos Aires, New York…e dalle mille città conosciute in tour. Non ti chiedo come trovi Torino quando ci torni a suonare, ma a te -che sei un maestro di stile- domando: esiste ancora la “torinesità”? 

Torino è cambiata moltissimo da quando ero ragazzo. Sicuramente è più povera. Molto più povera. Però è anche più vitale. Sicuramente più bella. Anzi io la trovo bellissima e decisamente più attraente della città grigia degli anni Cinquanta. E vedo con piacere che chi ci viene per la prima volta rimane sorpreso e affascinato come di fronte a un tesoro nascosto che si rivela improvvisamente. La torinesità…Cosa sarà mai? Chi lo sa! 

 

Nel tuo libro Incontri con musicisti straordinari per esprimere il massimo apprezzamento verso un artista, scrivi: ha una cosa sua. Hai mostrato di possedere una cosa tua anche come scrittore e scopritore di talenti. Quali criteri muovono questa tua inclinazione nell’arte della “scelta”?  

Penso che la cosa più importante per un leader sia quella di saper scegliere i suoi compagni di viaggio. Giovani o vecchi non ha importanza. Non mi sento assolutamente “talent scout” e non mi interessa esserlo. Cerco musicisti che condividano la visione della musica. Possono essere superbravi e straordinari ma se non sanno ascoltare, se non sanno dialogare non vanno bene per me. Oltre a  suonare bene (ma questo è il minimo indispensabile) devono essere capaci di non rinunciare al proprio ego, senza però imporlo agli altri. Devono saper dare e saper ricevere, a seconda dei bisogni degli altri membri della band. Devono saper reagire agli input e darne a loro volta, tener viva la musica. Devono sentirsi parte di una piccola democrazia ideale e perfetta. O se preferisci: devono insieme affrescare metaforicamente una parete bianca e farne una composizione, dove ognuno aggiunge quello che serve ed elimina quanto non è necessario. 

Fraber